Arrampicata e capacità adattiva: ne parliamo con Fisiorock

Quanti di noi si sono trovati ad un certo punto della loro “carriera verticale” lamentandosi di non riuscire più a migliorare? Spesso abbiamo liquidato le possibili soluzioni a questo stallo dando la colpa ai nostri limiti genetici o all’allenamento stesso (sappiamo che in un periodo di allenamento intenso siamo meno performanti). ma un recente – e come sempre interessantissimo – post di FisioRock ci offre un altro punto di vista. Siamo felicissimi di fare nuovamente una chiacchierata con il Dr. Olaf Panozzo di Fisiorock, nuovamente su questi schermi.

 

 

Ciao Olaf, bentornato su Oliunìd! Dalla tua pagina Instagram vediamo che sei sempre in forma sui massi! Come stai?

 

Ben ritrovati a voi! Direi che sto bene: è un periodo pienissimo di impegni e cambiamenti non sempre semplici, e questo va decisamente a discapito della mia forma fisica, a dispetto di quello che appare da Social! Ma questo è anche l’argomento di oggi, quindi…

 

 

Esatto, e a proposito di forma fisica abbiamo trovato il tuo post sulla Capacità Adattiva estremamente interessante, soprattutto perché ci spiega molto efficacemente come il rendimento in arrampicata non sia influenzato solo dal nostro allenamento, ma dal nostro “livello di stress” generale. Forse detto così è lievemente riduttivo, ma ce la dai buona come intro? :)

 

Assolutamente! In riabilitazione come in allenamento siamo reduci da decenni di visione strutturalista, dove il corpo è una macchina “guidata” dalla mente/cervello, e i due compartimenti sono stagni e indipendenti. Ormai abbiamo un’infinità di evidenze che dimostrano come non sia così, e come i due processi (fisico e mentale) siano in realtà uno solo, e si influenzino reciprocamente.

 

 

La Capacità Adattiva è un concetto trasversale che indica la nostra capacità di far fronte agli stress che riceviamo nella vita di tutti i giorni, e adattarci ad essi migliorando la capacità di gestirli. In allenamento significa che, se mi sospendo al trave con del sovraccarico, stressando il mio sistema e danneggiandolo in parte, il corpo si adatterà diventando più forte e in grado di tollerare un carico maggiore, ovviamente dopo un adeguato riposo. In una situazione analoga nel quotidiano possiamo affermare che, se devo gestire contemporaneamente progetti diversi al lavoro, sottopondendomi ad uno stress mentale, con il dovuto riposo ed adattamento sarò maggiormente in grado di gestire situazioni simili in futuro.

 

 

L’aspetto interessante è che il nostro corpo attinge alla stessa riserva di energia per adattarsi, sia per il processo fisico che per quello mentale: la Capacità Adattiva, appunto. Ma questa riserva è limitata.

 

 

 

 

Da fisioterapista riesci a spiegarci la differenza che possiamo avere nella resa in arrampicata tra un sovraccarico dovuto effettivamente ad allenamenti intensi (ad esempio sul volume) ed un sovraccarico mentale completamente scollegato dall’arrampicata?

 

Non è sempre facile fare questo distinguo. Il modo più semplice (che solitamente è quanto faccio con gli atleti che alleno) è probabilmente andare ad analizzare prima il piano di allenamento: c’è stata una grossa variazione nel volume? Sono state pianificate grosse differenze di struttura rispetto a quanto fatto nel mese precedente (attingendo ad un concetto che in allenamento si chiama ACWR o Acute to ChronicWorkload Ratio)? L’effettivo volume e intensità di allenamento sono eccessivi rispetto alla storia di allenamento e di arrampicata della persona?

 

 

Poi si va ad indagare lo stato dell’atleta, per determinare se vi sono segni di overtraining/overreaching. Esistono anche appositi questionari validati in merito, ma si possono guardare elementi molto semplici: vi è un costante senso di stanchezza anche nei giorni di scarico? L’umore è instabile, spesso irritato o ansioso? Vi sono segni di alterazione del sonno? Questi sono tutti segni che forse l’atleta si trova in overtraining o overreaching.

 

 

Poi si va a valutare tutto ciò che sta al di fuori dalla sfera dell’allenamento, considerando soprattutto dieta e idratazione, ore di sonno e ovviamente la sfera personale. Qui non è sempre semplice entrare, ma in generale si cerca di fare domande generiche sulla vita lavorativa e personale/famigliare, per valutare se vi sono immediate e palesi fonti di stress.

 

 

In base a dove si trovano gli elementi di stress maggiore, gli aspetti che “succhiano” più energia, si può immaginare che da lì venga la ridotta capacità di adattamento riscontrata con l’allenamento. Non è facile identificarlo dall’allenamento in sé, in quanto i “segni” di questa ridotta Capacità Adattiva – forse saturata è il termine più corretto – sono simili per uno stress fisico che per uno più psicologico/emotivo. Come spiegavo sopra, non siamo compartimenti separati.

 

 

 

 

Nel post utilizzi la parola “stressor”, che non avevamo fino ad ora mai sentito e che racchiude in sé praticamente un piccolo universo. Cosa si intende per stressor?

 

Qualsiasi cosa che ci accade e a cui dobbiamo far fronte, fisicamente, emotivamente o psicologicamente, rappresenta uno stressor. La sessione al pannello è uno stressor, la litigata con la fidanzata è uno stressor, il bisogno di pagare le bollette è uno stressor, la corsetta mattutina è uno stressor, così come il nuovo progetto da presentare al lavoro. Il nostro corpo non fa differenze.

 

 

Spesso non si ha chiaro come funziona la nostra fisiologia, in allenamento e non: quando noi facciamo qualcosa, come allenarci, non ci stiamo migliorando, stiamo volutamente infliggendo uno stress al nostro sistema, uno stress con caratteristiche precise, per ottenere poi, quando riposeremo, un adattamento a questo stress. Questo vale a 360°, in ogni aspetto della vita. Ma il punto è che ogni stressor attinge allo stesso recipiente, alla stessa Capacità Adattiva, e se gli stressor sono troppi questa capacità si esaurisce; e quando si esaurisce non ci adattiamo più (leggi “non riesco ad aggiungere più kg al trave”), o addirittura iniziamo a deteriorare (leggi “devo togliere progressivamente kg al trave”, oppure “sta iniziando a farmi male un dito”).

 

 

La soluzione ad un periodo di crisi può essere “rallentare il ritmo” un po’ su ogni fronte, accettare i propri limiti, concedersi anche una giornata di riposo per “svuotare” un po’ il bicchiere dal punto di vista del carico mentale. Secondo te può aver senso fare una pausa anche più lunga, di settimane o mesi?

 

Credo che nella vita bisogna essere realistici: il 95% di noi non pratica questo sport come professionisti, non siamo pagati per farlo. Questo significa che ognuno di noi ha delle priorità che non sono derogabili, legate a lavoro, famiglia/relazioni e impegni vari. Credo che il primo passo sia rivalutare queste priorità in maniera realistica, e se abbiamo esaurito le energie, capire dove spendere le poche che abbiamo.

 

 

Questo può voler dire abbandonare aspettative particolari riguardi al nostro sport nel breve termine, magari, in vista di tempi migliori. Quello che però da un punto di vista più preventivo non farei, è abbandonare del tutto il carico, soprattutto per periodi prolungati: questo determinerà una riduzione della tolleranza dei nostri tessuti, e un conseguente aumento del rischio di farci male quando potremo riprendere.

 

 

Quindi il mio consiglio sarebbe di valutare la quantità minima che riusciamo a mantenere: due sessioni da 30’ al trave a settimana saranno sempre molto meglio che uno stop prolungato, e quando riprenderemo sicuramente saremo arretrati meno in livello, e avremo un rischio minore di farci male.

 

 

Poi il concetto rimane sempre quello dell’accettare le limitazioni imposte dal nostro corpo e dal contesto in cui viviamo. Lottare sempre contro noi stessi non è sostenibile, né sano.

 

 

 

 

E cosa ne pensi dell’utilizzare l’arrampicata, così come qualsiasi altro sport, per decomprimere un po’ lo stress accumulato durante il giorno? C’è modo di usarlo come motore?

 

Assolutamente, ma in quel caso l’abilità sta nel non avere aspettative, e nel non comparare lo stato di forma attuale con quello precedente o con quello sperato, altrimenti si rischia di uscirne più frustrati di prima.

 

 

Se però si ha la capacità di arrampicare per il gusto di farlo, per il movimento, la natura, gli amici, senza un fine che non sia nel qui e ora, allora ci si può salvare forse. Ma non dovrebbe essere sempre così?