Intervista al fotografo di arrampicata Paolo Sartori

Paolo Sartori non è solo un fotografo il cui nome firma spesso le immagini di grandissimi climber come Daila Ojeda, Barbara Zangerl e Jacopo Larcher, ma è anche – e per forza di cose – un appassionato di arrampicata, montagna ed outdoor a 360 gradi. Ed è proprio questa sua passione, insieme al fatto di essere cresciuto in mezzo alle Alpi, che ha fatto sì che la sua vita prendesse la strada che in tanti sognano: diventare fotografo per professione!

 

 

E tra un viaggio in Sardegna ed un photoshooting nelle Dolomiti, tra una spedizione in Perù e le riprese  video sull’intimidante Nord dell’Eiger, abbiamo avuto il piacere di fare due chiacchiere con lui! 

 

 

[Foto di Enrico Veronese]

 

 

Ciao Paolo, benvenuto sul nostro blog! Dove ti trovi in questo momento? 

 

Ciao! Al momento sono a casa mia, in Val d’Ossola. Come tutti, anche io ho dovuto un pò stravolgere i miei programmi negli ultimi 14 mesi a causa della pandemia - avevo parecchi viaggi e progetti in programma per il 2020 e ovviamente sono tutti saltati. Se non altro ho avuto il tempo di esplorare più a fondo le montagne di casa, che poi includono alcuni dei massicci più belli del mondo (basti pensare alle Alpi Pennine…).  

 

 

Dopo lo stop iniziale dello scorso anno, con tutti i programmi cancellati nel giro di pochi giorni e il lockdown totale, gradualmente ho iniziato ad adattare il mio lavoro a questa nuova situazione scoprendo (o scoprendo di nuovo) che non serve andare in capo al mondo per creare delle belle fotografie. Fortunatamente ora, a differenza della primavera 2020 in cui tutto era fermo e non si capiva come sarebbe andata a finire, si inizia ad intravedere una luce in fondo al tunnel… 

 

 

infatti c’è finalmente “aria di ripartenza” un po’ in tutti i campi: per quanto riguarda te, cosa bolle in pentola  in questo momento? 

 

Un paio di settimane fa siamo andati in Sardegna per uno shooting, è stato il mio primo vero viaggio dallo scorso settembre. È stato bello poter cambiare aria per qualche giorno; la Sardegna poi è una delle mie mete preferite a livello fotografico e arrampicatorio. Purtroppo però abbiamo avuto problemi con i traghetti sia all’andata che al ritorno, trovandoci a gestire cambi di orario, cancellazioni e complicazioni varie. Per questo motivo abbiamo deciso di cancellare il viaggio successivo che era programmato proprio in questi giorni in Portogallo, per scalare su alcune scogliere spettacolari che sicuramente ci avrebbero concesso immagini fantastiche. Purtroppo il rischio di avere problemi con i trasporti è ancora troppo alto al momento. 

 

 

Il primo viaggio confermato sarà quindi per fine maggio in Namibia, dove attraverseremo il deserto del Namib con un 4x4. Sarà un’esperienza nuova per me, abituato a muovermi in verticale più che in orizzontale. Non avremo a che fare con ghiacciai e pareti, ma trovarci immersi in un ambiente sconfinato  come il deserto sarà sicuramente una bella avventura. 

 

 

 

Facciamo un passo indietro: ma come si arriva ad essere chiamati per fotografare dei viaggi di arrampicata? 

 

Bella domanda. Non esiste una risposta vera e propria, ogni altro fotografo che conosco ha seguito un percorso differente. Personalmente ho iniziato a fotografare le arrampicate che facevo con i miei amici nelle falesie intorno a casa; a quel tempo andavo ancora a scuola e scalavo praticamente tutti i giorni. Gradualmente la parte fotografica delle mie uscite ha acquistato sempre più importanza; non uscivo più per scalare, ma per fotografare. Ho iniziato così a fotografare alcuni climber professionisti quando venivano a provare i tiri duri qui in valle. Quando qualcuno chiudeva il suo progetto mandavo le foto alle riviste di arrampicata o alle aziende sponsor dell’atleta ottenendo così le mie prime pubblicazioni e con gli anni sono passato dalle falesie dell’Ossola a luoghi come la Nord dell’Eiger, Yosemite o la Patagonia. 

 

 

Hai letteralmente viaggiato in tutto il mondo per fermare in immagini ogni tipo di ambiente e sport  relativo all’outdoor. Qual è stato il progetto che ti ha dato la più grande soddisfazione, e quale quello che  ti ha messo più in difficoltà? 

 

Penso mi sia impossibile rispondere alla prima domanda. La soddisfazione è un concetto molto relativo per un fotografo professionista: a prescindere da quanto sia appagato (o contrariato) dal risultato artistico, quando c’è di mezzo un cliente l’obiettivo primario è che lui sia soddisfatto delle immagini, e non sempre la visione del cliente coincide con la mia. Quindi è difficile rispondere perché se il cliente è contento del lavoro fatto, dovrei esserne soddisfatto anche io, nonostante a me non piaccia granché; allo stesso modo, posso aver scattato le  immagini migliori della mia vita ma se non piacciono al cliente non posso definirlo un successo. 

 

 

Il dilemma interiore che ne scaturisce è più importante di quanto possa sembrare per qualsiasi professione creativa, perché a lungo andare si finisce per perdere di vista la propria visione e la propria motivazione. Per questo uno degli obiettivi che mi sono posto nel 2021 è di dedicare più tempo a progetti personali, in cui proprio perchè nessuno mi paga sono libero di seguire la mia visione. 

 

 

Anche per il progetto che mi ha creato più difficoltà non è facile rispondere. Il cervello umano tende a conservare i bei ricordi e ad eliminare quelli brutti; quando pensiamo ad un’ascensione in montagna solitamente ricordiamo la soddisfazione della vetta, non le lunghe ore di sofferenza durante la salita. Tra i  progetti recenti, quello che mi ha richiesto il maggiore impegno fisico e mentale è sicuramente stato seguire Jacopo Larcher e Babsi Zangerl durante la loro salita di Odyssee in giornata sulla Nord dell’Eiger. Li avevo già fotografati sulla stessa via nel 2018 quando avevano fatto una delle prime ripetizioni, e la cosa si era già rivelata impegnativa. Ma filmarli durante una salita così veloce era tutta un’altra storia: partenza dal bivacco all’una di notte, risalendo a jumar i primi 10 tiri nel buio più completo, portando tutta l’attrezzatura con me, sotto una costante cascata (essendo la via quasi tutta in strapiombo, la corda statica finisce nel vuoto e proprio sotto la verticale delle cenge soprastanti). All’alba ci trovavamo circa al decimo tiro e da lì dovevo seguirli filmandoli, senza rallentarli, sempre salendo sulle statiche per altri 14 tiri, prima di fare dietrofont e calarmi di nuovo per 750m fino al bivacco. Tutto ciò l’abbiamo fatto per tre volte prima che riuscissero nel tentativo decisivo (la seconda volta hanno anche rischiato grosso a causa di un temporale improvviso  quando erano quasi in cima, ma questa è un’altra storia). 

 

 

 

Parliamo un attimo di te come arrampicatore: quale stile di arrampicata preferisci?

 

Senza dubbio la placca tecnica - non si fa fatica ahah! 

 

 

E ti emoziona di più chiudere una via al limite o cogliere il momento unico ad esempio di Daila Ojeda  su una via pazzesca? 

 

La seconda, perché negli ultimi anni è li che ho investito gran parte del mio tempo e del mio impegno. Prima di dedicarmi alla fotografia ero ossessionato dall’arrampicata e ricordo bene il feeling di chiudere una via al limite, magari un progetto che avevo a lungo osservato con soggezione. L’arrampicata richiede una dedizione quasi totale per poterci anche solo avvicinare al limite, ma anche la fotografia richiede una pratica costante per essere padroneggiata. Non saprei dire se il talento esista o meno, ma sicuramente senza impegno e pratica serve a ben poco. E realizzare una buona fotografia dopo tanto lavoro dà una soddisfazione simile a quella che si prova chiudendo una via al limite. 

 

 

 

Sul tuo sito possiamo leggere interessanti post sui tuoi lavori ed è anche disponibile un download  gratuito per sapere tutto sulla “blue hour”: si tratta di una parentesi molto veloce di tempo al limite tra  luce del giorno e oscurità notturna. A volte, quando sappiamo che è questione di una manciata di minuti,  ci facciamo prendere dall’agitazione e non ne viene fuori nulla. Quale consiglio vuoi darci in anteprima  assoluta? 

 

La blue hour è uno dei momenti che preferisco per scattare. Non solo dà la possibilità di creare immagini visivamente “diverse”, ma è anche ottima dal punto di vista dello storytelling: quando andiamo in montagna  spesso partiamo dal parcheggio al buio, con la frontale, oppure ci tratteniamo in falesia per un ultimo tentativo ben oltre il tramonto, quindi perché non fotografare anche questi momenti? 

 

 

Ovviamente il buio non rende certo la vita facile al fotografo che voglia immortalare la blue hour, che come giustamente fai notare, dura pochi minuti. Il consiglio migliore è di far pratica con la propria fotocamera e conoscerne le varie funzioni ed i limiti. Molti sono convinti che serva un sacco di attrezzatura professionale  per fare delle belle foto, ma al giorno d’oggi molti smartphone hanno fotocamere di tutto rispetto… con un po' di pratica, chiunque può realizzare delle grandi fotografie in montagna!  

 

 

Allora lasciamo tutti i link per poterti seguire e per poter ricevere costantemente i tuoi aggiornamenti e “tips” su come fare foto di arrampicata indimenticabili!

 

Potete visitare il mio sito Paolosartoriphotgraphy, oppure seguirmi su Instagram @paolosartophoto! A presto!